IL TRADURRE IN WITTGENSTEIN TRA COMPRENDERE E INTERPRETARE

Moira De Iaco

Abstract


Un segno non ha un significato, bensì è un significato. O meglio, un segno è molteplici, infiniti, indeterminati significati. Nella prassi linguistica quotidiana, dichiara radicalmente Wittgenstein, noi parliamo e ci comprendiamo, senza richiedere costantemente una spiegazione dei segni. Ricorriamo alla spiegazione del segno, ossia a una definizione di esso, quando vi è l’esigenza di un chiarimento circa la sua grammatica, vale a dire quando il segno è in qualche modo forestiero. Quando parliamo già sempre ci pre-comprendiamo per via dell’accordo nei segni, suoniamo infatti una tastiera comune. Solo quando non ci sentiamo a casa nostra nella lingua che parliamo, la comprensione si interrompe e ricorriamo perciò alla spiegazione. Solo in questi casi, solo nei casi in cui il non comprendere o il fraintendere interrompono il comprendere, allora siamo chiamati a interpretare la lingua, a tradurre cioè i segni momentaneamente fraintesi. Comprendere e interpretare, quindi, non coincidono. Per Wittgenstein, comprendere è parlare e interpretare è tradurre. Nella quotidianità comprendere è parlare nella misura in cui, sulla base di un sapere comune circa l’uso dei segni, parliamo e ci comprendiamo senza fermarci a interpretare i segni distinguendo da essi i significati. Noi interpretiamo i segni quando non li comprendiamo immediatamente e lo facciamo rinviando a segni altri. In tali casi quindi ricorriamo, per esempio, alle definizioni ostensive o verbali, le quali traducono i segni distinguendo da essi i significati.

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DOI: https://doi.org/10.15162/1970-1861/134

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