Il n. 4 di «Post-filosofie» è dedicato alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, di cui nel 2007 è caduto il bicentenario anniversario della data di pubblicazione, avvenuta nell’aprile del 1807, quando Hegel, a conclusione del suo periodo jenese, s’era già trasferito a Bamberg, quale redattore della locale gazzetta.
Della singolare e complessa natura di quest’opera, che rimane, è superfluo dirlo, un testo di formazione indispensabile per chiunque voglia avere consapevolezza della filosofia e della realtà del moderno, ha iniziato col darne conto lo stesso autore. In un appunto che egli scrive a Berlino nell’autunno del 1831, cioè appena poco prima della morte, a proposito della sua intenzione di ripubblicare la Fenomenologia dello spirito, è detto: «Eigentümliche frühere Arbeit, nicht umarbeiten – auf die damalige Zeit bezüglich – in Vorrede: das abstrakte Absolute herrschte damals».1
Tale relativizzazione che lo Hegel berlinese faceva della sua prima grande opera a stampa – riferendola a un contesto di discussione teorica in cui nei primi anni dell’Ottocento dominava, da un lato, la filosofia del conoscere di Kant, con la sua scissione tra cosa in sé e coscienza, e dall’altro la dottrina della fede e del sapere come «immediatezza» di Jacobi – richiamava, dopo un venticinquennio, la presa di distanza che l’autore, rispetto alla medesima opera, aveva per altro già messo in atto subito dopo la pubblicazione, com’è testimoniato da una sua lettera a Schelling del 1° marzo 1807, in cui si duole dell’«infelice disordine» che ha dominato «sia il processo di stampa e di edizione che, in parte, la medesima composizione». La Phänomenologie des Geistes, riconosce Hegel, è solo la «prima parte» del sistema è solo l’introduzione: «non ho ancora sorpassato l’introduzione e non sono ancora giunto in mediam rem». La stessa composizione ha del resto sofferto di uno squilibrio tra le parti e il tutto. «L’approfondimento del dettaglio ha nuociuto, come ben avverto, alla veduta generale dell’insieme; il quale è per altro un tale incrociarsi di andare-e-venire, che elaborarlo meglio, fino a dargli forma più chiara e compiuta, mi sarebbe costato ancora molto tempo». Del resto, a proposito della complessità di composizione e della singolarità di quest’opera, va ricordato che essa ha due titoli, quali Wissenschaft der Erfahrung des Bewußtseins e Phänomenologie des Geistes, di cui il secondo doveva sostituire il primo, avendoceli tramandati entrambi solo un fraintendimento nella rilegatura del volume. Ha, oltre a una «Introduzione» (Einleitung), una «Prefazione» (Vorrede), scritta solo alla fine dell’intera opera, che riprende anche temi dell’Einleitung, riformulandoli in modo nuovo. Possiede due diverse articolazioni del suo contenuto, una secondo la divisione interna al testo, un’altra secondo la divisione dell’indice. Così come mostra una singolarissima sproporzione nella distribuzione delle pagine, giacché dei sei capitoli che compongono l’opera, indicati con i numeri romani secondo la primitiva suddivisione, il primo (Die sinnliche Gewißheit) si estende nell’edizione originale per 16 pagine, il secondo (Die Wahrnehmung) per 21, il terzo (Kraft und Verstand) per 42, il quarto (Die Wahrheit der Gewißheit seiner selbst) per 61, il quinto (Gewißheit und Wahrheit der Vernunft) per ben 214 pagine. Tanto che Theodor Haering nel suo testo del 1938, Hegel. Sein Wollen und sein Werk, poteva avanzare la tesi che la Fenomenologia hegeliana non era per nulla un’opera concepita unitariamente, che l’iniziale progetto doveva giungere fino al capitolo sulla «Ragione» e che l’intera seconda metà dell’opera non era stata inizialmente prevista da Hegel. A testimonianza appunto, di quanto complessa e problematica sia già la sola questione della composizione e della struttura formale della Fenomenologia, del resto intrinsecamente connessa, com’è evidente, all’ordito del suo divenire concettuale. Basti pensare in tal senso alla questione della «storia», di quale sia la sua connessione con i primi capitoli attinenti alla teoria della conoscenza, di quando essa inizi propriamente nel corso dell’opera, se con la dialettica di signore e servo nel capitolo sull’«Autocoscienza» o se con il capitolo sullo «Spirito».
Orbene, rispetto a tale complessità dell’opera hegeliana e alla variegatissima gamma d’interpretazioni che di essa è stata data nel corso di due secoli, il numero di «Post-filosofie» che dedichiamo alla Fenomenologia non può che essere, evidentemente, segnato da una prospettiva storiografica ed esegetico-critica assai parziale e specifica. In continuità con i precedenti numeri della rivista, si è deciso di privilegiare il tema e il problema del «riconoscimento» e, alla luce di questa configurazione concettuale ed eticopolitica – molto dibattuta, com’è noto, nella discussione contemporanea – provare a tornare a riflettere sulla ricchezza, le sedimentazioni di senso, le difficoltà del testo hegeliano e, più in generale, della sua fortuna e della sua possibile utilizzazione attuale.
I saggi di Christian Iber, Emmanuel Renault e Roberto Finelli sono dedicati a trattare e a discutere la polisemia, filosofica, antropologica, storicoistituzionale del termine riconoscimento nell’opera hegeliana, a muovere dalla puntualizzazione e definizione di quel «concetto del riconoscimento» (Begriff des Anerkennens) che Hegel ha messo a tema nel cap. IV della Fenomenologia e che rappresenta, ancora oggi, uno dei criteri più elevati e fecondi, a nostro avviso, con cui ripensare i problemi inevadibili della riformulazione antropologica e politica cui si trova oggi di fronte l’umanità contemporanea. In quelle pagine Hegel è giunto a teorizzare il riconoscimento, non solo come testimonianza della dimensione intersoggettiva del soggetto spirituale, ma, ancor più, come luogo di una socialità, pratica e conoscitiva, la cui funzione costitutiva è quella di un reciproco «dar-libertà» e «darsilibertà», nell’intreccio stesso della relazione, tra i due soggetti in questione. Per dire cioè che il vero riconoscimento consiste in una moltiplicata realizzazione di libertà, attraverso la quale, ciascuno dei singoli trova nell’altro da sé, e reciprocamente, l’incoraggiamento e la facilitazione a mettere in atto il suo più proprio progetto di vita, la sua più irripetibile individualità, senza che questo confligga con la dimensione dell’unità tra i due, e, più in generale, dell’unità tra i molti. A patto, si aggiunge, che la produzione e l’opera di ciascun progetto individuale di vita mantengano, essi stessi, un alto profilo e un elevato contenuto d’universalità e che non ricadano in desideri e manufatti di rilievo e utilità solo individualistica.
Ma c’è da domandarsi, rispetto a tale «concetto del riconoscimento», attraverso cui Hegel ha provato a risolvere il problema di come mediare libertà dell’individuo moderno e libertà della comunità antica, quanto poi lo stesso Hegel e la stessa Fenomenologia riescano a dar conto e a realizzare, sia sul piano della pienezza dell’esistenza individuale che su quello dell’adeguatezza funzionale e storica delle istituzioni, un criterio di tale natura: in cui l’unità e la «prossimità» della relazione si attua, paradossalmente, proprio attraverso l’individuazione e la «distanza» dei suoi membri. C’è da domandarsi cioè quanto il percorso del riconoscimento, nell’intera Fenomenologia hegeliana, e della progressiva liberazione dello spirito moderno riesca effettivamente a mantenere lo sviluppo e la compresenza di entrambe queste due istanze della libertà o se, viceversa, non prevalgano soluzioni segnate da asimmetria e dal rilievo univoco della dimensione collettivoistituzionale su quella individuale e personale.
A tal fine seguono, nell’articolazione di questo numero di «Post-filosofie», i saggi di Caterina De Bortoli, Walter Jaeschke, Francesco Toto: i primi due volti ad analizzare, rispettivamente, la funzione del linguaggio nella Fenomenologia e il concetto di «sapere assoluto». Il terzo, destinato ad una singolare incursione roussoiana in campo hegeliano, motivata non tanto e non solo dalla presenza di Rousseau nella formazione del primo Hegel, quanto dalla delineazione di un paradigma su «passioni, natura e riconoscimento», il cui confronto, nella diversità, appare quanto mai utile alla comprensione e all’approfondimento critico di quello hegeliano. I saggi di Antonio Carnevale e di Paola Di Cori fanno invece riferimento al dibattito attuale su Hegel nell’area anglofona, il primo dedicato alla fortuna della Fenomenologia nella filosofia post-analitica statunitense e il secondo al rilievo di Hegel in una prospettiva culturale ed etico-politica sempre più animata dagli “studi delle donne”, dai “black studies”, dai “cultural studies”. Infine, chiude questa annata di «Post-filosofie» un saggio di Rossella Bonito Oliva sulla «libertà individuale tra diritti e norme», che, senza farsi carico di alcuna volontà conclusiva, riflette, in coerenza con gli altri saggi, sui nessi di continuità e discontinuità, di concretezza ed astrazione, che corrono ed operano tra «fondo e mondo simbolico comune» e possibili riconoscimenti individuali.
1 «lavoro propriamente giovanile, non elaborare – riferito al tempo di allora – nella Prefazione: allora dominava l’Assoluto astratto» (cfr. G. W. F. Hegel, “Phänomenologie des Geistes”, a cura di W. Bonsiepen e R. Heede, in Gesammelte Werke, Felix Meiner, Hamburg 1980, Band 9, p. 448), traduzione mia.
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Sommario
Articoli
Francesco FISTETTI
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5 - 8
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Christian IBER
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9 - 28
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Emmanuel RENAULT
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29 - 45
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Roberto FINELLI
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47 - 69
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Caterina DE BORTOLI
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71 - 106
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Walter JAESCHKE
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107 - 127
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Francesco TOTO
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129 - 157
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Antonio CARNEVALE
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159 - 179
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Paola DI CORI
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181 - 206
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Rossella BONITO OLIVA
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207 - 219
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