SBAGLIANDO S’IMPARA, ANCHE IN TRADUZIONE: IL CASO DI A L’ENFANT QUE JE N’AURAI PAS DI LINDA LÊ

Autori

  • Ida Porfido Università degli Studi di Bari "Aldo Moro"

DOI:

https://doi.org/10.15162/2704-8659/2376

Parole chiave:

Traduzione letteraria (francese/Italiano), Didattica della traduzione, Pedagogia dell’errore, Linda Lê, Tommaso Gurreri

Abstract

La correzione esplicita dell’errore, auspicabilmente accompagnata da un commento metalinguistico, può rivelarsi una strategia molto efficace nel campo della prasseologia e della didattica della traduzione, soprattutto se letteraria. Più che in altri casi, infatti, la traduzione di questi testi appare sottesa da un continuo lavoro di ripensamento e di “aggiustamento del tiro” che richiama alla mente la dinamica descritta da Henri Meschonnic in termini di decentramento (décentrement) e annessione (annexion). Com’è noto, infatti, per il poeta, traduttore e linguista francese, ogni testo si pone sempre a una determinata distanza dal soggetto. Decentrarsi significa allora scegliere di collocarsi nella lingua-cultura dell’altro senza dimenticare il proprio universo di partenza: solo in questo modo diventa per lui possibile tradurre ciò che il testo fa e non quello che dice. Trovare la giusta distanza è quindi compito, e piena responsabilità, del traduttore. Perché a furia di avvicinarsi troppo, invece, come dimostra il caso di un libro della scrittrice francese ultracontemporanea Linda Lê (A l’enfant que je n’aurai pas, NiL, 2011) recentemente tradotto in italiano da Tommaso Gurrieri (Lettera al figlio che non avrò, Clichy, 2015), si rischia di incorrere in deplorevoli inesattezze, se non addirittura in imperdonabili errori di calco (lessicale, sintattico, semantico).

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Pubblicato

2025-12-09